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Un racconto sull’Expo

Creato il 04 maggio 2015 da Autodafe

expo-2015-milanoPer la raccolta del Narrativo Presente in uscita il 6 maggio, dedicata al tema “Milano Expo”, abbiamo commissionato, dopo la selezione dei racconti liberamente inviati, un contributo aggiuntivo. L’idea era di avere in raccolta anche un racconto che prendesse in considerazione il particolare significato della scelta di inaugurare l’Expo il Primo Maggio, giornata da sempre dedicata alla festa dei lavoratori; ne è venuto qualcosa di più ampio, che a nostro avviso riassume in buona parte molti dei temi toccati anche negli altri racconti inviati: le infiltrazioni mafiose, il degrado etico cittadino, l’impatto del grande evento sulla vita quotidiana dei milanesi.
Poiché, come sempre avviene in questi casi, il racconto non è stato pubblicato nell’apposita sezione del sito (dalla quale sono già stati tolti tutti i contributi relativi al tema in questione), abbiamo ritenuto interessante promuoverlo e renderlo disponibile nel blog, pubblicandolo qui di seguito. (C.A.)

Primo Maggio
di Agostino Longhi
Li sento arrivare che non sono ancora le otto. Non fanno nemmeno troppo casino, ma li sento: trascinare pesi, strusciare qualcosa sul pavimento, aprire e chiudere porte, raschiare pareti. Le voci le avverto appena, all’inizio, ma piano piano salgono di tono, si fanno meno prudenti e meno rispettose. Mi rigiro nel letto, provo a isolarmi, ma ormai il sonno sta sfuggendo via.
È tre mesi che vanno avanti. Ristrutturazione dell’appartamento, hanno detto. In realtà l’hanno svuotato come un guscio di noce, l’appartamento: divelta tutta la pavimentazione, levate le piastrelle dai muri, smontati i sanitari e la cucina, abbattuti i muri interni e persino quelli portanti che danno sul terrazzo. Due mesi di sistematica distruzione, di martelli a ritmo incessante, di calcinacci precipitati nel cortile interno; poi, da un mese, il lento ricostruire, con il trapano a urlare all’improvviso per fissare e saldare, ancora il martello per puntellare, le frese per levigare. Un tormento continuo, dalle otto del mattino a metà pomeriggio; non proprio l’ideale per uno che fa il mio lavoro e la mia vita, che a casa crea e pensa, che la sera spesso tira tardi e che la mattina avrebbe da dormire prima di rimettersi all’opera.
Ho dovuto sopportare, anche perché non c’era scelta. Ma stamattina è il Primo Maggio, giorno festivo per antonomasia, e non posso fargliela passare liscia. Oggi non possono lavorare.
Che poi non è tanto per me che mi preoccupo. Certo, ero abituato ad alzarmi non prima delle nove, quando questa solfa non era ancora iniziata; ma ormai mi ci sono rassegnato, il sonno mi si è fatto leggero, sarà l’aver scavallato la quarantina, e basta poco per svegliarmi. Però devo proteggere il sonno di Arianna, la mia compagna. Lei non lavora a casa: fa consulenze e perizie per studi legali e per il tribunale, a volte le tocca alzarsi prestissimo, e quando può dormire, come oggi, è capace anche di tirare mezzogiorno, beata lei.
Mi alzo, perché ormai non riesco più a riprendere sonno. Mentre sto pisciando mi sembra di sentire un paio di colpi di martello, ma come ovattati, lontani. Gli do ancora una possibilità, vado in cucina, mi scaldo un avanzo di caffè, lo ingurgito, mi stravacco sul divano e mi accendo una sigaretta. Continuo a sentire i tonfi di materiali portati e scaricati, il raschiare leggero ma insistente, le voci che si alzano. Poi, di nuovo, tre o quattro colpi di martello, forti e netti stavolta.
Non sto a pensarci un attimo. Mi infilo i pantaloni della tuta sopra quelli del pigiama e mi butto un giaccone direttamente sulla maglietta, apro la porta di casa, la richiudo e scendo le scale, infradito ai piedi, fino al piano di sotto. Mi fermo finché non sento le voci all’interno, poi busso leggermente con le nocche sulla porta, perché io non voglio scampanellare all’alba e disturbare gli altri condomini.
Anche se, a ben pensarci, che vadano pure affanculo, gli altri condomini. Quelli che mi picchiavano con la scopa sul soffitto o che mi lanciavano frecciatine incontrandomi in ascensore, se mi capitava di provare due note alla tastiera o di accennare un accordo alla chitarra dopo le dieci di sera, giusto per farmi un’idea di come venisse quel che avevo pensato. E che adesso, all’alba del Primo Maggio, tollerano senza un fiato che degli operai si mettano a fare il loro rumoroso lavoro.
Mi apre la porta un tipo che sembra avere qualche anno meno di me, molti più muscoli e un accento che mi pare calabrese. Forse mi sbaglio, forse mi faccio condizionare dal refrain degli appalti edilizi in mano alla ’ndrangheta, forse sono persino un po’ razzista, ma l’associazione che mi scatta in testa è quella. Anche perché il tipo non ha per niente l’aria del muratore: è curato, in ordine, pettinato e laccato, vestito con un giubbino nero di pelle lucida, calza scarpe alla moda. Ha lo sguardo strafottente di chi fa finta di meravigliarsi.
Sono sceso dal mio appartamento senza un piano preciso, e a quest’ora del mattino non è che mi venga facile fare discorsi troppo articolati. Così mi limito ad agitargli davanti al muso il dito indice a mo’ di tergicristallo e a spiegargli, con voce gutturale e frasi smozzicate, che oggi no, oggi non possono lavorare e che se non smettono chiamo la polizia.
Come lo dico mi viene da ridere. Con l’inaugurazione dell’Expo, i cortei dei No Expo, la caccia ai black bloc veri o presunti e il presidio dei mille punti sensibili, so già da me quale risultato otterrei se chiamassi la polizia per una bega di questo genere. Però il concetto che voglio affermare rimane quello.
L’altro aumenta la strafottenza nello sguardo e nella piega della bocca. Mi risponde qualcosa, il cui senso è che io non devo minacciarlo. Gli faccio presente che la mia non è una minaccia: è una richiesta di rispetto delle regole e delle leggi, e in caso contrario sarò costretto a comportarmi di conseguenza.
Alle spalle del capobastone si materializzano i due muratori, che ho già incontrato diverse volte in questi mesi. Uno tutto scuro, più largo che alto, l’altro un giovane con il fisico e la faccia da nerd dello studente di ingegneria, che a prima vista parrebbe in difficoltà pure ad alzare una sedia, figuriamoci a spianare una parete e ritirarla su. Il che, forse, spiega anche perché siano in ballo da tre mesi.
Il capobanda, comunque, insiste nel parlare di minacce e di avvertimenti, nell’infiorare la sua difesa, che poi tanto difensiva non è, con termini allusivi. Si offre anche di chiamarla lui, la polizia, e allo scopo mi spiana il cellulare sotto il naso.
Non so se sia un bluff o se sia appattato anche coi gendarmi, ma non recedo. Gli dico che non ho alcuna voglia di chiamare la polizia, ma che devono semplicemente smetterla, che sopporto tutti i santi giorni il loro rumore e che oggi, forte della legge, non ho alcuna intenzione di tollerarlo.
Il tipo contrattacca: dice che loro non fanno poi tanto rumore, e quasi gli rido in faccia. Poi si mette a parlare di quello che hanno dovuto sopportare loro: scritte ingiuriose e minatorie, biglietti anonimi lasciati sull’ingresso dell’appartamento o infilati sotto l’uscio. Si lagna e si fa vittima, ma senza dismettere la sua arroganza.
Gli rispondo che la cosa non mi riguarda, che io non ho lasciato messaggi o pizzini. Non so perché mi esca questo termine, che non ho ponderato: ma è una scelta felice, perché cambia il verso della discussione.
Al capobastone brilla l’occhio complice. Mi dice che non allude certo a me, che sono altri quelli che si nascondono dietro l’anonimato, che di me ha rispetto perché sono sceso di persona e ci ho messo la faccia.
Il linguaggio mi suona molto mafioso, e del resto è colpa un po’ mia. Ma in fondo mi suona anche politico e persino sportivo. Deve essere il rovescio della medaglia della sindrome di Schettino: oggi puoi pure piazzare un chilo di tritolo sotto il culo di un magistrato, coprire di insulti uno della fazione rivale in pieno parlamento, essere un allenatore che perde dieci partite di fila; ma se non ti nascondi, se ti assumi la responsabilità, se ci metti la faccia, va tutto bene, sei un vero uomo e meriti il massimo rispetto.
La conversazione ha preso quella piega, in ogni modo. E il tizio mi spiega che non occorre minacciare, che è meglio lasciar stare la polizia, che ci vuole poco per mettersi d’accordo, che basta venirsi incontro.
Non ci sto. Recuperata un minimo di eloquenza, gli faccio presente che col mio lavoro, per venirmi incontro, dovrebbero iniziare alle dieci e non usare il trapano nel pomeriggio, il che non è francamente possibile. Non sto a spiegargli che il pomeriggio compongo musica e testi, che magari rivedo qualcosa dei colleghi che si fidano delle mie consulenze, che la sera faccio spesso dei concerti e che tiro tardi, che la mattina dovrei recuperare il sonno e la lucidità. Ma riesco a fargli passare il concetto che io avrei bisogno di dormire il mattino e pensare il pomeriggio, e questo si scontrerebbe con il loro diritto di lavorare, per cui facciano pure quel che devono e io mi arrangio. Nei giorni e negli orari normali, però, quindi non oggi. E che per questo chiedo solo il rispetto delle regole.
Lui mette insieme ancora qualche frase di circostanza, e poi lo dice. Col sorriso più sarcastico che gli riesce, mi fa presente che in fondo, insomma, oggi, a Milano, non è che sia poi così strano lavorare, che non gli sembra una cosa così fuori dalla legge.
Me lo aspettavo, ma faccio finta di non capire, invitandolo con la mimica a completare il concetto.
«Sì, insomma, oggi apre l’Expo, no? Ce n’è tanta di gente che lavora. Ci sono i muratori che hanno lavorato tutta la notte e che continueranno anche oggi. Non è che noi facciamo una cosa diversa.»
Ho dialettica sufficiente per fargli presente che hanno dovuto fare accordi specifici, per consentire quei turni massacranti di lavoro e per tenere aperti i cantieri anche oggi, che sarebbe la festa dei lavoratori. Loro, invece, devono attenersi alle regole generali.
Bofonchia che anche loro hanno delle consegne da rispettare, che lui è il titolare dell’azienda e che ne deve rispondere ai proprietari. Quindi, conclude, ora smetteranno di lavorare, ma torneranno domani per mezza giornata, anche se è sabato.
Sa benissimo, come lo so io, che le ordinanze comunali non vietano di svolgere lavori di ristrutturazione il sabato; sarebbe un problema sindacale, eventualmente, ma non di disturbo della quiete pubblica, come recita il regolamento della polizia urbana. Ma è chiaro che ci tiene troppo a sottolineare lo scambio di favori, il do ut des, il patto di non belligeranza.
Faccio spallucce e gli dico che il sabato possono lavorare. Perché lo dice la legge, non perché lo dico io.
Lui fa cenno ai muratori di raccogliere le loro cose e poi, sorridendo complice, sottolinea: «Lo vede che ci si può venire incontro, che basta mettersi d’accordo.»
Saluto con un grugnito gentile. Risalgo le scale ciabattando, rientro in casa e tendo l’orecchio: i rumori sono cessati, sento ancora le voci, poi la porta che si chiude e poi più nulla.
Arianna dorme, e non ha sentito niente, credo neppure si sia accorta che sono uscito di casa. Ho salvato il suo diritto al riposo, ma sono incazzato lo stesso. Il pesce puzza dalla testa.


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